Separazione delle carriere:
quando la magistratura teme la trasparenza

C'è un curioso paradosso che aleggia sul dibattito riguardante la separazione delle carriere in magistratura: più si invoca la terzietà del giudice, più si cerca di salvare l’ambiguità funzionale che tiene insieme chi accusa e chi giudica. Il cittadino, intanto, osserva – spesso confuso, talvolta sgomento – una discussione che si allontana anni luce dalla realtà processuale vissuta nei tribunali. La proposta di separare nettamente le carriere tra pubblici ministeri e giudici, già adottata in gran parte delle democrazie moderne, viene trattata in Italia come un’eresia istituzionale, un attentato all’indipendenza, un pretesto reazionario. E chi guida questa resistenza? L’Associazione Nazionale Magistrati, che più che rappresentare la magistratura sembra difenderne i privilegi d’apparato.
Secondo l’ANM, la riforma metterebbe a rischio l’autonomia e l’indipendenza della pubblica accusa, rendendola subalterna all’esecutivo. Un mantra ripetuto con tale fervore da generare il sospetto che si voglia occultare la vera preoccupazione: la perdita del controllo interno al potere giudiziario. Il pubblico ministero, ci dicono, è un magistrato e tale deve restare, unito al giudice da un concorso comune, da una carriera condivisa, da valutazioni disciplinari gestite all’interno dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Ma in quale manuale di diritto questo legame garantirebbe la terzietà del giudice? E soprattutto: in quale aula di tribunale un imputato si sente davvero protetto da un sistema in cui l’accusa e il giudice sono figli della stessa madre?
I dati smontano agevolmente l’impalcatura dell’ANM. Il CSM, con voto quasi unanime, ha dichiarato il fenomeno del passaggio di funzioni del tutto marginale (meno dell’1% in dieci anni), ma questo non giustifica il mantenimento di un sistema che, anche senza abusi, produce un corto circuito percettivo e culturale. Non è questione di quantità ma di principio. Il giudice non può e non deve appartenere alla stessa filiera del suo interlocutore accusatorio. La riforma, prevedendo due distinti concorsi per l’accesso in magistratura – uno per giudici e uno per pubblici ministeri – introduce anche la creazione di due Consigli superiori della magistratura separati, ciascuno competente a valutare e governare le carriere dei rispettivi magistrati. A ciò si aggiunge l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare autonoma, esterna ad entrambi i CSM, che sarà chiamata a giudicare sulle responsabilità disciplinari dei magistrati, sostituendo l’attuale funzione disciplinare interna al Consiglio superiore. Non si tratta, dunque, di una nuova Corte costituzionale, ma di un organo terzo e specializzato per il controllo etico-disciplinare, pensato per rafforzare l’imparzialità complessiva del sistema.
Il vero cuore del problema è la resistenza corporativa. L’ANM, nata per tutelare la dignità della funzione, appare oggi prigioniera di un’autoreferenzialità che la allontana dalla società civile. Ogni tentativo di modernizzare il sistema è interpretato come un attacco ideologico. Ogni proposta di riforma, anche la più ragionata, viene trattata come un affronto alla Costituzione. In questa visione rigida e chiusa, il magistrato non può sbagliare, non può evolversi, e soprattutto non può essere distinto dal collega che, nel processo, dovrebbe rappresentare l’altra parte. Il tutto, ovviamente, in nome della sacra indipendenza. Indipendenza da chi, però? Dai cittadini, dalla trasparenza, da ogni forma di controllo esterno che possa incrinare l’autogestione di una casta? Perché se è vero che il magistrato deve restare indipendente dai poteri politici, è altrettanto vero che non può pretendere di sottrarsi al principio di responsabilità verso la società da cui trae legittimazione.
Intendiamoci: l’autonomia della magistratura è un presidio irrinunciabile della democrazia. Ma l’indipendenza non è mai un privilegio di casta, è una responsabilità che vive nella trasparenza, nella distinzione delle funzioni, nella riconoscibilità dei ruoli. Solo in un sistema dove l’accusa e il giudice viaggiano su binari diversi si può davvero parlare di giusto processo, di parità tra le parti, di terzietà autentica. Tutto il resto è un’illusione comoda, un’abitudine istituzionale camuffata da principio inviolabile.
Ed è forse proprio questa consuetudine opaca a inquietare l’ANM: l’idea di dover finalmente spiegare al Paese perché una delle due parti in giudizio è così vicina al giudice da poterne condividere carriera, linguaggio e cultura. Un’idea che, per chi difende il sistema attuale, appare rivoluzionaria. O peggio: trasparente. E la trasparenza, si sa, fa più paura del potere. Perché il potere si conserva, ma la trasparenza – quella – non si controlla.
In fondo, separare le carriere significherebbe interrompere una lunga, rassicurante consuetudine tra colleghi: uno slancio temerario verso l’equità, che rischia di far smarrire quella calda complicità istituzionale in cui, da decenni, accusa e giudice si danno del tu. Con tutto il rispetto per l’imparzialità, beninteso.
Luisa Paratore
01/08/2025
Fonti
Parere del CSM, 8 gennaio 2025: www.sistemapenale.it
Dichiarazioni ANM su Il Dubbio, febbraio 2025: www.ildubbio.news
Analisi critica: www.soardistudiolegale.it
Documento Camere Penali contro ANM: www.camerepenali.it
Giuseppe Amato, Diritto Giustizia e Costituzione: www.dirittogiustiziaecostituzione.it
Editoriale Domani, maggio 2025: www.editorialedomani.it
Wikipedia, Magistratura italiana e Referendum giustizia 2022: www.wikipedia.org