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NEL VITERBESE UN'AGGRESSIONE - ETTORE LEMBO NEWS

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Nel Viterbese, un’aggressione che lascia
a terra un ragazzo e la coscienza di un Paese

Un ragazzo cammina da solo lungo una strada provinciale, nei pressi di Tarquinia. Un furgone si ferma. Sei uomini scendono, lo circondano, lo colpiscono ripetutamente con dei bastoni. Non urlano, non minacciano, non spiegano. Lo massacrano in silenzio, poi risalgono sul mezzo e scompaiono. Il ragazzo resta lì, a terra, privo di sensi. È grave. È in coma. E noi, cosa ne facciamo di questa storia?

Non è solo cronaca nera. È il riflesso di qualcosa di più profondo, più oscuro. Siamo di fronte a un’aggressione spietata, priva di movente apparente. La dinamica lascia sgomenti: l’azione è stata rapida, organizzata, brutale. Non una parola. Solo bastoni. Come se l’aggressione fosse un atto naturale, un gesto vuoto eppure carico di una violenza che grida vendetta. Una violenza senza volto, ma non senza radici.

C’è qualcosa di marcio che serpeggia, che scivola tra i margini delle nostre comunità. È la banalità del male che si traveste da silenzio. La prevaricazione che si fa identità. Il branco che prende forma dove il pensiero si spegne e il rispetto non viene insegnato. Sei persone che picchiano un solo ragazzo non sono un atto isolato. Sono il prodotto di un’assenza collettiva. Un fallimento educativo, culturale, sociale.

Perché il branco nasce quando nessuno dice “basta”. Nasce nelle case dove non si parla, nei quartieri dove non si ascolta, nelle scuole dove il rispetto resta un concetto astratto. Si nutre dell’indifferenza. Cresce nel vuoto lasciato dagli adulti. E si manifesta così, in pieno giorno, lungo una strada di provincia, come un pugno improvviso che ci sveglia troppo tardi.

Eppure, anche davanti a questo orrore, la domanda più inquietante è: come reagiamo? Con un post, un titolo, qualche ora di indignazione? E poi? Torniamo al nostro silenzio?

Non basta più raccontare. Bisogna interrogarsi. Bisogna scegliere da che parte stare. Se continuiamo a tollerare, a minimizzare, a dimenticare, non siamo solo spettatori. Siamo complici. Perché ogni aggressione impunita è un segnale che legittima la successiva. Ogni silenzio educa all’indifferenza.

Il ragazzo aggredito a Tarquinia oggi lotta per sopravvivere. Ma anche noi, come società, stiamo lottando per non perdere del tutto il senso dell’umano. Se ancora ci resta, questo senso, è il momento di usarlo. Serve il coraggio di riconoscere che la violenza non nasce per caso. Che il branco non è un’entità astratta. Che ognuno di noi ha una responsabilità, fosse anche solo quella di non tacere.

Solo così potremo sperare che un giorno, su quella strada deserta dove un ragazzo è stato massacrato, possa passare qualcosa di diverso: una presenza, uno sguardo, una cultura che protegge, che ascolta, che insegna. Qualcosa che somigli, finalmente, a una civiltà.

Luisa Paratore
28/07/2025
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